GRAVE MALATTIA AUTOIMMUNE DA VACCINO ANTIDIFTOTETANICO: ASL CONDANNATA AL RISARCIMENTO DANNI PER RESPONSABILITÀ MEDICA (SENTENZA SEZIONE CIVILE TRIBUNALE DI PISTOIA N. 211 PUBBLICATA IL 27 FEBBRAIO 2020)

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07 GIU GRAVE MALATTIA AUTOIMMUNE DA VACCINO ANTIDIFTOTETANICO: ASL CONDANNATA AL RISARCIMENTO DANNI PER RESPONSABILITÀ MEDICA (SENTENZA SEZIONE CIVILE TRIBUNALE DI PISTOIA N. 211 PUBBLICATA IL 27 FEBBRAIO 2020)

Lo scorso Febbraio, la Sezione Civile del Tribunale di Pistoia condanna la ASL al risarcimento e a corrispondere un vitalizio per danni vaccinali.

Un dipendente di una ditta della zona, obbligato per motivi lavorativi alla vaccinazione antitetanica, viene sottoposto al vaccino diftavax antidiftotetanico senza alcun consenso informato.

Contrae una grave malattia autoimmune che gli causa un’invalidità civile del 75%.

Dopo aver ottenuto il riconoscimento di danno da vaccino ai sensi della Legge 210/92, il danneggiato chiede un risarcimento alla ASL.

Il Tribunale accerta le gravi responsabilità per aver somministrato un vaccino diverso rispetto a quello richiesto (antidiftotetanico anziché antitetanico) in assenza di consenso informato e condanna la ASL.

Di seguito, la sentenza.

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Repubblica Italiana

Tribunale di Pistoia

In Nome del Popolo Italiano

il giudice XXXXX ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa n. XXXXXX tra le parti:
 ******* con gli avv. **** ****

ATTORE

AZIENDA USL 3 PISTOIA con l’avv. ********

CONVENUTA

Decisa a Pistoia in data 18/02/2020 sulle seguenti conclusioni:

Attore: per l’accoglimento della propria domanda risarcitoria con reiezione delle contestazioni avversarie e condanna di parte convenuta al pagamento di euro 161.686,00 quale danno non patrimoniale o la diversa somma di giustizia oltre euro 100.000,00 quale danno morale o la diversa somma di giustizia, comunque non inferiore al 33% del danno complessivo, oltre alla somma di euro 14.331,99 per ogni anno di lavoro perso da parte dell’attore per non
 meno di anni 10 o la diversa somma di giustizia; con vittoria di spese, competenze e onorari e distrazione delle stesse in favore dei procuratori di parte attrice ex art. 93 c.p.c..

Convenuta: come da foglio di pc depositato in via telematica in data 15.5.2019 ossia, in tesi respingere la domanda attorea perché infondata in fatto e in diritto, con vittoria di spese e compensi e condanna alle spese di c.t.u.; in ipotesi e in via istruttoria, per il rinnovo della c.t.u. medica con affidamento dell’incarico ad un collegio composto da un medico -legale e da uno specialista nella disciplina, con specifica e pratica conoscenza della materia.

Con rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c. avanzata da parte attrice perché infondata in fatto e in diritto, vinte le spese di giudizio e di c.t.u..

Fatto e diritto

Ricorre ex art. 702bis c.p.c. XXXXX chiedendo accertarsi la sussistenza del nesso causale tra la somministrazione del vaccino TD arbitrariamente effettuato dalla USL Pistoia e i danni da se medesimo patiti, accertarsi altresì il danno biologico e/o esistenziale e dichiarare la
 responsabilità della USL convenuta per i postumi e/o i danni tutti, psichici e fisici, patiti e patiendi nonché lavorativi riportati a seguito dell’evento in 
oggetto, con conseguente condanna della resistente Azienda USL 3 di Pistoia al pagamento in proprio favore della somma ritenuta di giustizia all’esito dell’istruttoria, oltre al danno morale e/o esistenziale da liquidarsi in via equitativa, oltre interessi e rivalutazione ” dalle singole scadenze al saldo “.

Rappresenta il ricorrente di essersi recato, in data 5.9.2008, presso la USL di Pistoia onde effettuare la vaccinazione antitetanica richiesta dal proprio datore
 di lavoro e di essere stato invece, in quell’occasione e senza il proprio
 preventivo consenso e la necessaria informativa, sottoposto anche a vaccinazione antidifterica che gli provocava da subito gravi conseguenze sulla salute ” con febbri alte, progressiva perdita di funzioni e, infine, impossibilità a lavorare “, con progressivo peggioramento delle proprie condizioni psico-fisiche oltre che umane e lavorative. Per tali motivi, rimasti senza esiti tentativi di conciliazione ante iudicium , lo stesso chiede alla USL il risarcimento di tutti i danni patiti a causa della vaccinazione eseguita erroneamente e in assenza di consenso. 
Si costituisce l’azienda convenuta, contestando le avverse pretese sia nell’an 
che nel quantum argomentando, in particolare, circa la correttezza dell’operato della USL e la mancanza di profili di responsabilità a carico della stessa, infine avanzando istanza per il mutamento del rito ex art. 702ter co. 3 c.p.c..
 Disposto il mutamento di rito e concessi i termini di cui all’art. 183 co. 6 
c.p.c., la causa è stata istruita a mezzo prove per testi e c.t.u. medico -legale e all’udienza del 29.10.2019 le parti hanno precisato le proprie conclusioni così come in epigrafe riportate, con assegnazione dei termini di legge per il deposito di scritti conclusivi.

 

A giudizio di questo Tribunale, la domanda risarcitoria di parte ricorrente XXXXX deve essere accolta, nei limiti e con le precisazioni di seguito esposti.

1.I. A livello di an , nell’ottica della valutazione in ordine alla sussistenza o meno di un’ipotesi di responsabilità civile da illecito a carico della USL convenuta, va osservato che la censura mossa dal ricorrente attiene 
all’avvenuta somministrazione di un vaccino non richiesto senza la previa acquisizione del consenso informato da parte del paziente.
 Ora, sotto un primo profilo, costituisce dato processualmente comprovato il 
fatto che per il XXXXX fosse stata richiesta, da parte del datore di lavoro, la 
sola vaccinazione antitetanica necessaria per lo svolgimento delle mansioni lavorative affidate al lavoratore: la circostanza è confermata dalla teste XXXX, medico del lavoro dell’Azienda XX presso la quale era stato assunto il XXXXX, la quale ha dichiarato come ” Per la qualifica per cui il Sig. XXXXX 
era stato assunto dalla XX il Protocollo sulla sicurezza dei luoghi di lavori prevedeva quale obbligatoria la vaccinazione antitetanica ed io la prescrissi all’attore. Non erano previste dal Protocollo altre vaccinazioni ed io non ne prescrissi ” (cfr. verbale udienza 24.1.2017).
 Sotto un secondo profilo, la stessa Azienda convenuta nonché, in sede di istruttoria, la teste XXX che ebbe ad effettuare il vaccino per cui è 
lite hanno affermato che il vaccino antidifterico somministrato al XXXXX era consigliato dal Calendario regionale sui vaccini in conformità al Piano 
Vaccinale Nazionale. Ciò significa, però, che il vaccino in questione non era obbligatorio e che dunque, essendosi in presenza di trattamento sanitario non obbligato, in ordine allo stesso era imprescindibile la preventiva acquisizione
 del consenso da parte del soggetto da vaccinare, aprendo così il campo a
 siffatta problematica denunciata con forza sin dal ricorso introduttivo del giudizio.
 Sotto un terzo profilo, occorre chiarire come non sia stata mossa alcuna contestazione alla modalità in sé della somministrazione, ovvero alla 
correttezza dell’operato dell’infermiera USL al di là della censurata scelta iniziale di optare per il vaccino combinato e alla parimenti corretta dose vaccinale iniettata, in conformità alle raccomandazioni di cui al Piano 
Nazionale e alle Direttive Regionali.

Invero, le doglianze di parte ricorrente si sono incentrate sulla mancanza di 
una preventiva adeguata informazione e acquisizione di consenso del paziente al trattamento sanitario nonché sulla mancanza di controlli o esami preventivi.
 In proposito, a livello generale deve rammentarsi come la necessaria previa opera informativa del paziente e la successiva acquisizione del consenso di costui si configura quale obbligazione di tipo contrattuale gravante sul personale medico, stante il c.d. contatto sociale instaurato tra medico e 
paziente all’atto della presa in cura di questi da parte del primo: pertanto,
 nella prospettiva dell’onere probatorio (e sulla scorta dei principi cardine espressi da Cass. S.U. n. 13533/2001 e successiva granitica giurisprudenza),
 a fronte di una allegazione di inadempimento da parte del paziente è onere
 della controparte (medico operante o Azienda Sanitaria di riferimento) dare compiuta prova dell’avvenuta regolare acquisizione di un consenso realmente informato, ossia dotato di tutti i requisiti al riguardo nel tempo individuati dall’elaborazione interpretativa in materia (cfr. Cass. n. 24074/2017, per cui
”In tema di attività medico -chirurgica, la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un diritto soggettivo del paziente all’autodeterminazione, cui corrisponde, da parte del medico, l’obbligo di fornire informazioni dettagliate sull’intervento da eseguire, con la conseguenza che, in caso di contestazione del paziente, grava sul medico l’onere di provare il corretto adempimento dell’obbligo informativo preventivo”).
 In quest’ottica, già solo la difformità delle dichiarazioni testimoniali assunte – senza che sussistano, a carico dei testi dell’una e dell’altra parte, elementi tali
 da farne ragionevolmente dubitare l’attendibilità – ridondano in danno della parte tenuta all’assolvimento dell’onere probatorio, ossia la convenuta USL.

Peraltro, la stessa documentazione versata in giudizio dà conto della mancata acquisizione di un consenso dotato dei crismi per potersi definire
 effettivamente “informato” a garanzia del diritto fondamentale alla libera determinazione del paziente in ambito sanitario.

Basti richiamare, in
 argomento, i più recenti arresti della Suprema Corte dai quali emerge come condizione basilare per la ricorrenza di un consenso ragionato e consapevole al trattamento sanitario da parte del paziente sia la sottoscrizione di informative dettagliate, specifiche per il trattamento da svolgere e tali da consentire la
 presa di conoscenza della natura e portata dell’intervento e dei suoi possibili rischi: fra le ultime pronunce sulla tematica, può citarsi Cass. n. 23328/2019
 (“In tema di attività medico-chirurgica, il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo 
all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone”), in continuità con Cass. n. 2177/2016, essendosi oltretutto specificato come la necessità di acquisizione del consenso informato in tema di attività medico-chirurgica sussista anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito (ovvero così alta da renderne certo l’accadimento) e questo per la ragione che “la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono ometterle in base ad un mero calcolo statistico ” (in termini, Cass. n. 19731/2014).

Nella vicenda sub iudice , un consenso di tal fatta risulta assente: manca del tutto, a tacer d’altro, un qualsiasi foglio sottoscritto dal paziente, ritenendo la USL da un lato sufficiente una informazione meramente orale di questi e correlativa acquisizione orale del consenso in dispregio ai principi giurisprudenziali ormai consolidati appena citati, dall’altro lato di aver sufficientemente dimostrato l’adempimento del proprio obbligo al riguardo tramite la compilazione ad opera della stessa infermiera che somministrò il vaccino del solo modulo anamnestico pre-vaccinale (prodotto sub doc. 3 fasc. ricorrente): il quale tuttavia, oltre a non essere ancora una volta sottoscritto dal paziente ma dalla sola infermiera non essendo dunque allo stesso 
riferibile, attiene all’evidenza a profili e informazioni differenti da quelli relativi al tipo di vaccinazione da eseguire, ai possibili rischi e complicanze ecc. come richiesto da un reale consenso informato.

Accertata dunque la mancanza di un valido consenso del paziente allo
 specifico trattamento effettuato, sono da valutare le conseguenze ascrivibili a detta condotta inadempiente della USL nei suoi possibili risvolti risarcitori.

Al riguardo, sotto un primo aspetto si deve affermare – con la giurisprudenza
 di legittimità nei suoi più recenti pronunciamenti sulla tematica – che dalla lesione del diritto all’autodeterminazione insita nella sottoposizione ad un trattamento medico non consentito deriva, secondo l’ id quod plerumque accidit, “un danno-conseguenza autonomamente risarcibile – costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso psichicamente e fisicamente – che non necessita di una specifica prova ” (così Cass. ord. n. 11749/2018), in quanto l’omessa acquisizione del consenso informato preventivo “determina la lesione in sé del diritto della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest’ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. ” (in termini, Cass. n. 17022/2018).

Sotto un secondo aspetto, è altresì possibile che, nella specifica vicenda sottoposta al vaglio giudiziale, la condotta illecita consistente nella mancata acquisizione del consenso informato sia idonea ad integrare l’antecedente logico-giuridico della lesione al diritto alla salute patita dal paziente. In questo caso, occorre che costui dia la prova del fatto che, ove correttamente informato, non avrebbe acconsentito all’effettuazione del trattamento medico subito. Del tutto condivisibili in proposito i principi, appunto di logica giuridica, nitidamente espressi da Cass. ord. n. 19199/2018, massimata nel senso che ” In materia di responsabilità sanitaria, l ‘inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l’omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova – che, in applicazione del criterio generale di cui all ‘art. 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso “. Ad ulteriore chiarimento, con successiva pronuncia n. 28985/2019 la Suprema Corte ha statuito (sempre in massima) che grava sul paziente “l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova) ” precisandosi che “al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni “.

Nel caso concreto qui in esame , è da dirsi raggiunta per presunzioni la prova in ordine al c.d. giudizio controfattuale, desunta da significativi indici presuntivi consistenti, da un lato, nella mancata informativa specifica del paziente circa i rischi ricollegabili al vaccino somministrato e, dall’altro lato e soprattutto, dal fatto che tale tipo di vaccino non era quello prescritto dal proprio datore di lavoro: considerato infatti che il XXXXX si era recato alla ASL dietro prescrizione del medico aziendale, al solo fine di eseguire un vaccino ritenuto indispensabile per il tipo di mansioni lavorative affidategli, è da presumere secondo il criterio dell’ id quod plerumque accidit , richiamato dalla Cassazione citata, che lo stesso non avrebbe acconsentito all’effettuazione di un vaccino diverso e ulteriore semplicemente perché “raccomandato” dalle direttive sanitarie regionali, trattandosi di vaccino diverso da quello specificamente prescritto dal medico ed esorbitante dalla circoscritta esigenza vaccinale per la quale era stata invece richiesta l’antitetanica (anche la Cass . n. 28985/2019 cit. definisce come contrario all’ id quod plerumque accidit il discostamento del paziente dalle indicazioni terapeutiche del medico, nella specie rappresentate dalla specifica e limitata richiesta di vaccino formulata dal medico aziendale).

In forza di siffatti ragionamenti, risulta dimostrato il primo anello del nesso consequenziale tra mancata acquisizione del consenso e danni di cui viene chiesto il ristoro, restando da vagliare il secondo anello di tale catena causale ovvero l’effettiva derivazione dei danni alla salute dal vaccino “non acconsentito”.

Al riguardo, indubbia e adeguatamente comprovata dalla documentazione medica in atti nonché dalle indagini peritali la sussistenza di gravi pregiudizi alla salute del ricorrente sfociati nel riconoscimento di un’invalidità civile al 75% (cfr. doc. 9 fasc. ricorrente), quanto al rapporto di causalità fra tali evenienze ed il vaccino somministrato in data 5.9.2008 si profilano dirimenti le valutazioni rese dal c.t.u. all’esito di analisi invero approfondita, condotta nel pieno rispetto del contraddittorio peritale e dei crismi di scientificità, con studio preciso della casistica in esame alla luce della letteratura medica in materia dettagliatamente indicata dal c.t.u. nel proprio elaborato: pertanto, non si rinvengono motivi tali da dover disporre la rinnovazione della
 consulenza, come chiesto dalla parte convenuta, avendo peraltro il c.t.u.
 motivato le proprie conclusioni sulla base dei principi logici e giuridici sottesi
 alla responsabilità per danno non patrimoniale sub specie biologico, facendo corretta applicazione del criterio regolante la consequenzialità causale 
civilistica, del “più probabile che non”.
 Ebbene il consulente ha valutato che “secondo il criterio del più probabile che non, è lecito ritenere che la lesione dell’integrità psicofisica sia da mettere in nesso causale con il trattamento praticato “chiarendo, in risposta alle osservazioni critiche del c.t.p. di parte convenuta , che nel caso de quo
 risultano rispettati i criteri di positiva valutazione del nesso di causalità in
 sede medico-legale, ossia il criterio cronologico, il criterio topografico, il criterio della continuità fenomenica e il criterio di esclusione, stante l’insorgenza dei
 primi sintomi di malessere (febbre alta con immediato ricovero al PS) a breve distanza di ore dalla somministrazione vaccinale e non essendo stata 
evidenziata, né essendo emersa dagli atti e dall’indagine peritale circa la condizione di salute e la “storia medica” del XXXXX , alcun’altra causa in 
grado di giustificare la sindrome infiammatoria autoimmune post vaccinale 
(cfr. pag. 36 relazione c.t.u. in atti).
 Ancora in risposta alle note critiche dell’azienda convenuta circa il fatto che il morbo di Still, diagnosticato nel ricorrente, non rientra tra gli effetti collaterali verificati del vaccino antidifterico, merita evidenziare come il c.t.u. non abbia 
sul punto espresso una diagnosi precisa, rammentando anzi che siano state
 poste dai vari medici occupatisi del caso (le cui relazioni e osservazioni sono dettagliatamente riportate nell’elaborato peritale) diverse diagnosi circa lo stato 
di salute del XXXXX, ossia morbo di Still dell’adulto, febbre ricorrente di ndd, sindrome autoinfiammatoria ricorrente, sindrome ASIA (Autoimmune Inflammatory Sindrome Induced by Adiuvant) – sindrome identificante uno spettro di condizioni cliniche immunomediate da un agente adiuvante quali silicone, alluminio e vari altri che possono essere contenuti anche nei vaccini
(cfr. relazione YYYYY richiamata a pagg. 12 -13 e 23 -24 relazione c.t.u. in atti): concludendo nel senso che “Se è difficile inquadrare nosologicamente quale malattia affligge il signor  XXXXX, è certo che si è trattato, e si tratta, di una sindrome infiammatoria autoimmune, post vaccinale (Diftavax), accompagnata da febbri ricorrenti e mialgie, insorta immediatamente dopo la vaccinazione antidifterica ed antitetanica, a fronte di una richiesta del Medico Competente di vaccino antitetanico […] ” (pag. 25 relazione c.t.u.). Per concludere sul punto, si impongono due ulteriori considerazioni.
 Per un verso, a conforto della tesi sostenuta dal consulente d’ufficio in ordine alla sussistenza del nesso causale, non è irrilevante (come vorrebbe la convenuta) il richiamo alla valutazione resa dalla CMO in sede di delibazione circa la sussistenza del diritto all’indennità di cui alla l. n. 210/1992, riconosciuta al XXXXX: la stessa Cassazione infatti ha chiarito, in autorevole
 e assai noto pronunciamento a Sezioni Unite (n. 577/2008), la rilevanza di siffatta valutazione quale materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice e da vagliare in uno alle altre emergenze processuali e prove acquisite in giudizio: alla luce di ciò, il fatto che nella vicenda in discorso i medici della CMO si siano espressi positivamente circa il nesso causale fra inoculo del vaccino e comparsa delle sequele autoimmuni è indice presuntivo importante a sostegno della bontà degli esiti della consulenza tecnica d’ufficio prevenuta a conclusioni del tutto analoghe nel senso del riconoscimento del nesso causale.

Per altro verso, non è assentibile la prospettazione di parte convenuta secondo la quale i danni patiti dal XXXXX non sarebbero ascrivibili alla USL in mancanza del requisito della prevedibilità degli stessi ai sensi dell’art. 1225 c.c.: la comparsa di conseguenze negative a seguito di trattamenti vaccinali è, infatti, dato assolutamente prevedibile non inficiato dalla differente gravità con cui dette conseguenze possono esprimersi ovvero dalla frequenza del loro manifestarsi . A ciò aggiungasi il fatto che, come indicato dal c.t.u. (con richiamo alla relazione YYYYY, dianzi citata) , le sindromi autoinfiammatorie ovvero l’insorgenza di malattie autoimmuni possono scaturire da agenti coadiuvanti contenuti anche nei vaccini, presumendosi – e dovendosi presumere – che un medico che somministra i vaccini sia a conoscenza delle possibili conseguenze derivanti dagli stessi. Sul punto può richiamarsi il principio espresso, in tema di accertamento del nesso causale tra danno e vaccinazioni (seppur nel diverso, ma analogo, ambito del riconoscimento dell’indennizzo ex l. n. 210/1992), da Cass. n. 25119/2017 per cui il criterio in base al quale valutare la sussistenza del nesso di causalità tra somministrazione vaccinale e danno alla salute è quello di “ragionevole probabilità scientifica ispirato al principio “del più probabile che non”, da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (c.d. probabilità quantitativa), ma riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica) “, ivi compresa l’esclusione di possibili fattori alternativi (cfr. in senso più generale Cass. ord. n. 23197/2018).

Quanto poi alla riferibilità dei sintomi patologici manifestatisi nel ricorrente alla specifica tipologia di vaccino eseguito piuttosto che (o anche, in ipotesi) a quello originariamente prescritto, è l’intero elaborato peritale a darne contezza, avendo peraltro il c.t.u. precisato la differenza qualitativa e quantitativa fra i due inoculi (cfr. pagg. 14 -15 relazione c.t.u.) e chiarito che il XXXXX doveva essere sottoposto a vaccinazione antitetanica come previsto dalla l. n. 
626/1994 per poter svolger il proprio lavoro e che la scelta di effettuare il vaccino combinato “non è stata conforme alla necessità della situazione clinica per cui la vaccinazione era richiesta” (cfr. pag. 27 relazione c.t.u.).
 Alla luce di quanto esposto, risulta dunque dimostrata la responsabilità
 dell’Azienda sanitaria per i danni post-vaccinali subiti dal ricorrente.

II.2. Venendo al quantum della richiesta risarcitoria e analizzando in dettaglio le singole voce di danno, si osserva:
 a) danno biologico: il c.t.u., dalle cui valutazioni non v’è motivo di discostarsi anche in virtù di quanto sopra detto circa la bontà dell’indagine peritale, ha stimato la sussistenza di postumi permanenti nella misura del 25%, oltre ad 
un danno biologico temporaneo assoluto di 60 giorni, parziale di 60 giorni al 75% ed altri 60 giorni a l 50%: in applicazione delle tabelle milanesi, che consentono uniformità di liquidazione a livello nazionale, ciò si traduce in termini monetari nell’importo di euro 124.018,00 (di euro 110.788,00 per invalidità permanente). 
Quanto al danno morale di cui parte ricorrente ha chiesto la liquidazione in
 via equitativa, occorre in primis ricordare come lo stesso non sia liquidabile quale voce autonoma di danno bensì quale percentuale aggiuntiva del danno biologico (senza ripercorrere in questa sede la notissima evoluzione giurisprudenziale sviluppatasi in materia, è sufficiente puntualizzare come a seguito delle Sezioni Unite n. 26972/2008, pur essendo stata sancita 
l’unitarietà del danno non patrimoniale onde evitare la duplicazione di voci di danno derivante dal pregresso sistema di “scomposizione” dello stesso -danno morale, biologico, esistenziale – dette ulteriori voci non sono state “cancellate” per ritenuta loro inesistenza ontologica, bensì sono state ricomprese nell’unico 
e onnicomprensivo danno non patrimoniale all’interno del quale continuano ad avere spazio, quali “declinazioni”, da valutarsi caso per caso, del danno c.d. biologico, i medesimi pregiudizi prima singolarmente considerati ): tale sistema , della c.d. personalizzazione del danno , consente di offrire ristoro a pregiudizi particolari ed eccedenti le conseguenze ordinariamente riconducibili ad un danno biologico quale quello nello specifico riconosciuto e liquidato, con valutazione lasciata alla discrezionalità del giudice e rimessa per lo più a criteri equitativi purché supportata da adeguata motivazione con riferimento alle peculiarità del singolo caso concreto e alle risultanze dell’istruttoria processuale svolta e purché degli ulteriori specifici pregiudizi asseritamente subiti dal danneggiato sia fornito adeguato supporto probatorio (cfr., in tema di personalizzazione del danno, copiosissima giurisprudenza fra cui, solo per citare talune fra le pronunce più recenti, Cass. n. 21939/2017, Cass. n. 3505/2016, Cass. n. 16197/2015, Cass. n. 12594/2015, Cass. n. 12211/2015, Cass. n. 9320/2015, Cass. n. 5243/2014, Cass. n. 1361/2014, 
Cass. n. 21716/2013, Cass. n. 17161/2012, Cass. n. 9238/2011 et al.).

Con riferimento alla vicenda di causa, invero, tale conforto probatorio risulta per certi aspetti carente, avendo il ricorrente solo allegato senza darne dimostrazione le conseguenze tragiche che il danno alla salute subito a causa del vaccino ha avuto nella propria vita lavorativa e familiare: a quest’ultimo proposito risulta peraltro, ed è lo stesso ricorrente che al fine ne dà atto, come 
lo stesso invero attualmente viva con una compagna dalla quale ha avuto un figlio e che è la medesima “amica” (così qualificata dal ricorrente) sentita come teste che aveva accompagnato all’epoca dei fatti il XXXXX presso la USL a chiedere informazioni sul vaccino subito. Dunque, per un verso la vita personale del XXXXX anche dal punto di vista affettivo non ha subito una deprivazione definitiva, per altro verso non è stato dimostrato alcun nesso causale fra conseguenze del vaccino e separazione dalla moglie.

Quanto alla perdita del lavoro, da un lato il c.t.u. ha ritenuto sussistere per la particolare attività lavorativa una riduzione della capacità lavorativa specifica pari al 50% per la cui quantificazione appare congrua e accoglibile, siccome redatta in conformità a criteri di legge come indicato dall’ultima giurisprudenza sul punto (cfr. Cass. n. 16913/2019), la somma indicata in sede conclusionale da parte ricorrente, pari a una rendita vitalizia per euro 1.194,33 mensili decorrenti dalla data della domanda. Dall’altro lato, per contro, nulla è da riconoscere a titolo di danno morale con riferimento al settore lavorativo, non solo e non tanto perché ciò rischia di determinare una duplicazione di voci di danno rispetto a quanto liquidato per perdita della capacità lavorativa specifica, ma anche perché non sussiste prova in atti del fatto che la perdita del lavoro, avvenuta diverso tempo dopo l’evento vaccinale per cui è lite, sia causalmente ricollegata al lo stato di salute del XXXXX: ché anzi, dalla stessa documentazione versata dal ricorrente risulta come costui
 sia stato licenziato per giustificato motivo oggetto dovuto ad esubero di personale e non a problemi di salute scaturiti dal vaccino indebito.
 Piuttosto, a concorrere nel configurare il c.d. danno morale nel caso di specie sono i riflessi sulla vita quotidiana del danneggiato a motivo della sue condizioni di salute, come emergenti dalle dettagliate descrizioni del c.t.u. nonché dall’avvenuto riconoscimento di un’invalidità civile al 75%: aspetti, questi, che non si esauriscono nel danno biologico strettamente inteso, ma sono idonei a determinare importanti cambi di abitudini e stili di vita, indubbi qualora si debba convivere con febbri continue, mialgie, frequenti ricoveri. Considerato tutto quanto sopra (cambio radicale in peius della vita quotidiana del paziente che, tuttavia, non ha impedito allo stesso di coltivare relazioni personali anche costituendo un nuovo nucleo familiare) e atteso che la c.d. personalizzazione del danno, canale di riconoscimento del danno morale, si esprime in percentuale rispetto al danno biologico strettamente inteso con un aumento massimo – in ipotesi quale quella in esame, come da tabelle di
 Milano richiamate – del 34%, pare congruo riconoscere nel caso in discorso una personalizzazione pari al 20% .

Evidentemente non accoglibile, per quanto sin qui detto circa la liquidazione del danno morale che avviene tramite c.d. personalizzazione del danno biologico, la richiesta di parte ricorrente di liquidazione di un’ulteriore somma a tal titolo indicata nell’importo di euro 100.000,00 e rimessa, in ogni caso,
 alla valutazione equitativa del giudice: dopo che, peraltro, la stessa parte ricorrente aveva già operato una personalizzazione (nella misura massima) del danno biologico, oltre la quale (cfr. giurisprudenza citata supra) null’altro è liquidabile a titolo di danno non patrimoniale.
 Sulla cifra così complessivamente risultante (danno biologico: euro 124.018,00; danno biologico personalizzato: euro 148.821,60; danno da capacità lavorativa specifica pari a euro 14.331,99 annuali per la parte di
 danno calcolata a far data dalla domanda giudiziale sino alla data della presenta pronuncia) , trattandosi di credito di valore, vanno poi calcolati la rivalutazione monetaria e gli interessi in base ai criteri sanciti da Cass. S.U. n. 1712/1995, ossia previa devalutazione della somma alla data del verificarsi del danno (ovvero, per quanto riguarda il danno da perdita di capacità lavorativa specifica, dalla data della domanda giudiziale) , e con successiva rivalutazione della stessa alla data della presente pronuncia con applicazione degli interessi legali sulla somma anno per anno rivalutata: dalla data di deposito della sentenza, su tale somma – divenuta, a seguito della liquidazione giudiziale, credito di valuta – andranno applicati i soli interessi legali fino alla data dell’effettivo soddisfo.

III. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano , come in dispositivo , a mente del DM 55/2014 in base al valore della lite come risultante dal
 decisum e considerata la consistenza dell’attività processuale svolta. A carico della convenuta soccombente vanno altresì poste integralmente le spese di c.t.u., già liquidate con separata ordinanza , nonché le spese di c.t.p. sostenute da parte ricorrente 
 Non sussistono, per contro, ragioni valide per disporre l’ulteriore condanna della USL ai sensi dell’art. 96 c.p.c., non ravvisandosi alcuna condotta processualmente illecita nel contegno difensivo dalla stessa tenuto in una vicenda controversa, nella quale l’accertamento definitivo della fondatezza della domanda risarcitoria spiegata dal paziente ha richiesto indagini approfondite e complesse, anche e soprattutto a livello medico-scientifico.

 

P. Q. M.

Il Tribunale di Pistoia in composizione monocratica , definitivamente pronunciando, ogni contraria o diversa istanza ed eccezione disattesa, così provvede:

1) in accoglimento della domanda di parte ricorrente, accertata la responsabilità di parte convenuta Azienda USL 3 Pistoia nella causazione dei danni occorsi al ricorrente a seguito degli eventi descritti in parte motiva (nel la specie, vaccinazione antidifterica eseguita in data 5.9.2008), condanna la convenuta Azienda USL 3 Pistoia al risarcimento, in favore di parte ricorrente XXXXX, del danno biologico personalizzato nella misura di euro 148.821,60 nonché del danno da perdita di capacità lavorativa specifica 
tramite corresponsione di una rendita vitalizia per l’importo di euro 1.194,33 mensili; il tutto oltre rivalutazione e interessi sino alla data della presente pronuncia, come specificato in parte motiva (par. II. 2).